I MINISTERI FAMILIARI:
LA CHIAVE PER DELLE CHIESE SANE

by Jonathan Lindvall

Nella cultura moderna, siamo giunti sempre più a valutare praticamente tutto da una prospettiva individualistica. Troviamo la nostra identità in noi stessi, individualmente, in base alle nostre personali realizzazioni e posizioni, a ciò che possediamo, ecc. Abbiamo sempre più difficoltà ad accettare la nozione di far parte di qualcosa che è maggiore di noi stessi.

Eppure la Bibbia rappresenta un paradigma assai diverso. Le persone devono trovare la propria identità nel far parte di un insieme collettivo: una discendenza, una famiglia o, quel che più importa, il corpo di Cristo. Però molti di noi hanno difficoltà a comprendere questa collegialità. Ad esempio, la maggior parte degli Occidentali ha una comprensione non più che teorica dell’affermazione di Gesù (Mt 19:6; Mc 10:8) secondo cui marito e moglie “non sono più due, ma una sola carne”, o dell’assunto di Paolo (Rm 12:5) secondo cui “noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro”.

Io ho sempre creduto in queste verità a livello accademico. Però, a livello esperienziale, non riuscivo a capire come mia moglie e io fossimo una sola carne secondo qualcosa di più del senso più elementare di intimità fisica. Similmente, la maggior parte della mia esperienza ecclesiale ha riflesso il presupposto secondo cui la chiesa è un conglomerato di individui che partecipano alla stessa funzione.

Poiché il Signore sta guidando molti a vedere il modello apostolico neotestamentario delle riunioni nelle case private, sospetto che, come me, la maggior parte rechi con sé il bagaglio della propria esperienza e comprensione del passato. Però, a quanto pare, il Signore sta restaurando la comprensione e l’esperienza della natura corporativa del corpo di Cristo fra molte chiese in casa di oggi. Egli ci sta facendo passare dalla comprensione esclusivamente teologica alla verità dell’unità, alla realtà dell’essere esperienzialmente saldati in un tutto che è maggiore delle sue parti.

Un modo in cui Egli lo sta facendo è restaurando il fondamento dell’unità e dell’identità familiare. Io teorizzo che uno dei motivi del movimento della “scuola fatta in casa” (un’opera apparentemente separata di Dio, ma che sospetto vi sia legata nel proposito coordinato di Dio) sia di preparare le famiglie a funzionare in unità nella chiesa. Storicamente, mentre l’individualismo dava gradualmente forma alle percezioni individuali nella società occidentale, la chiesa perdeva gradualmente la propria consapevolezza de “La potenza spirituale dei ministeri familiari” (il titolo di un messaggio predicato da cui scaturisce questo capitolo).

Poiché Dio ha depositato nella chiesa del XIX sec. la visione per le missioni straniere, è cominciato a germogliare e fiorire un insidioso seme distruttivo. Le famiglie missionarie si preoccupavano dell’educazione dei propri figli. Quando l’istruzione istituzionale divenne la norma presunta, questo creò un conflitto percettibile per molti missionari e le agenzie che li mandavano. Gradualmente, fu sviluppata un’infrastruttura educativa di collegi missionari per soddisfare l’apparente bisogno. Entro il XX sec., era tipico per i genitori missionari essere separati dai propri figli per lunghi periodi, spesso a cominciare da tenerissima età. Quando i collegi per i figli dei missionari divennero più comuni, cominciò a essere sempre più accettato un fenomeno tragico. I figli dei missionari erano allevati come veri e propri orfani da parte di amorevoli persone che se ne prendevano cura facendo del loro meglio. Però molti dei figli e delle figlie dei missionari stranieri s’inasprirono a motivo dei sacrifici fatti dai loro genitori. Purtroppo, oggi ci sono numerose storie di figli di missionari che non vogliono avere niente a che fare con il Signore, e che accusano la chiesa di averli separati dai propri genitori durante un periodo in cui, secondo il piano di Dio, essi avrebbero dovuto costituire il ministero principale dei loro genitori (benché non l’unico).

Ancora oggi ci sono agenzie missionarie che richiedono ai candidati missionari d’impegnarsi a mandare i propri figli in collegio. Questo non viene solo razionalizzato come se fosse per il bene dei figli, ma è anche inteso apertamente a rendere liberi i singoli genitori di ministrare sul campo con minore distrazione. Le coppie missionarie sono viste, perciò, più che un nucleo familiare, dei partner nel ministero. L’agenzia missionaria si aspetta di raccogliere il beneficio di utilizzare due singoli operai anziché di vedere la coppia come un nucleo familiare.

Questo non ha solo un effetto devastante sui figli, ma sulla nozione stessa di famiglia. In effetti, questo accelera la diffusione di concezioni individualistiche, minando quelle che, ironicamente, sono talvolta usanze familiari culturalmente più bibliche rispetto ai gruppi che si stanno evangelizzando. Il triste risultato è che alle nuove chiese fondate viene presentato un modello malsano e snaturato di vita familiare. Non si riesce a scorgere un esempio di famiglia unita e sana nella vita di chi le sta discepolando. (Durante il mio ministero in Asia, temo di aver osservato spesso il frutto assai diffuso del fatto di ignorare, scusare o finanche elogiare l’infedeltà nella vita familiare fra le moderne chiese indiane e cinesi).

Questo triste stato delle cose, però, non è esclusivo delle missioni straniere. Durante le ultime poche generazioni, la chiesa occidentale ha visto sempre più operai cristiani che si sono concentrati esclusivamente sul proprio ministero, tanto da trascurare le proprie famiglie. Sebbene questo fenomeno non sia nuovo, sta diventando dilagante nel Cristianesimo istituzionale. Le conseguenze distruttive comprendono la cattiva reputazione dei figli dei predicatori e la carenza di esempi di vita familiare santa nel popolo di Dio.

Prima di procedere, voglio precisare la mia esortazione riconoscendo che anche l’errore contrario è una trappola. Così com’è possibile che una persona cada nell’idolatria del proprio ministero, è anche possibile idolatrare la propria famiglia o il concetto di famiglia. Dobbiamo sempre amare Gesù al disopra di qualunque cosa, sia del nostro ministero per Lui che della famiglia che Egli ci ha affidato. Gesù mise in guardia dal mettere le nostre famiglie al di sopra di Lui (Mt 10:34-37; 12:47-50; 19:29; Mc 10:29-30; Lc 9:59-62; 14:20-26). Eppure, queste Scritture vengono sempre più utilizzate per razionalizzare un’antiscritturale negligenza della responsabilità familiare. Senza trascurare gli avvertimenti contro il fatto di idolatrare la famiglia in modo inopportuno, consideriamo che cosa dice ancora la Parola di Dio riguardo al ministero familiare, e come questo abbia un impatto su altri ministeri.

DIO AMA LA FAMIGLIA

Dio ha creato le famiglie ed esprime le Sue emozioni a loro riguardo. In un’espressione estremamente chiara del Suo cuore, Dio esprime i propri sentimenti appassionati riguardo alla famiglia in Malachia 2:16: “Poiché l’Eterno, il DIO d’Israele, dice che egli odia il divorzio” (ND). Io credo che Dio ami il principio della famiglia. Egli scelse le relazioni familiari come la metafora prevalente per la relazione neotestamentaria dei cristiani con Lui e gli uni con gli altri. I cristiani sono diventati figli di Dio (Gv 1:12; Rm 8:16; 1 Gv 3:2) — membri della Sua famiglia (Ef 2:19). Fra le altre cose, Gesù è venuto per rivelare Dio come Padre (Lc 11:2; Gv 1:18; 16:25). Fra le altre cose, lo Spirito Santo è stato donato per rivelare Dio come nostro Abbà (papà — un intimo riferimento al Padre; Rm 8:15; Gal 4:6). Uno degli identificatori usati più frequentemente per i cristiani nel Nuovo Testamento è il termine fratelli (Mt 23:8; At 6:3; 1 Pt 1:22; 1 Gv 3:14, 16). Una delle immagini più belle della relazione fra Cristo e la chiesa è quella di uno Sposo e della sua sposa (Mt 9:15; Gv 3:29; 2 Cor 11:2; Ap 19:7-9; 21:2, 9; 22:17). Sebbene queste metafore non manchino del tutto nell’Antico Testamento, sono assai più ampliate nel Nuovo Testamento. Il Signore vuole che le nostre relazioni familiari sane forniscano queste immagini fisiche che Egli possa utilizzare per rivelare le realtà spirituali. Se l’immagine viene trascurata, ci perdiamo parte dell’intento di Dio per questa rivelazione.

In effetti, Paolo disse che ogni famiglia è destinata a essere un riflesso del patriarcato del Padre Celeste. In Efesini 3:14-15, egli scrisse: “Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre [gr. patêr], dal quale ogni famiglia [gr. patriá] nei cieli e sulla terra prende nome”. Secondo il Suo piano, le famiglie devono essere guidate dai padri e, a quanto sembra, devono essere delimitate dalla giurisdizione patriarcale della paternità.

Lungi dall’abolire e nemmeno minimizzare la famiglia, il Nuovo Testamento avvalora ed espande quanto era stato presentato riguardo alla famiglia nell’Antico Testamento. Uno dei comandamenti veterotestamentari citato più spesso nel Nuovo Testamento è il seguente: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20:12; Lv 19:3; Dt 5:16; Mt 15:3-9; 19:16-19; Mc 7:6-13; 10:17-19; Lc 18:18-20; Ef 6:2). Nelle loro lettere, gli apostoli spesero una considerevole quantità di tempo a insegnare sulle pratiche familiari (1 Cor 7; Ef 5:22-6:4; Col 3:18-21; 1 Tm 3:2, 4-5, 11-12; 5:4, 8-10, 14, 16; Tt 1:6; 2:3-5; 1 Pt 3:1-7; Eb 12:5-11).

L’OSPITALITÀ FAMILIARE

Una delle pratiche principali incoraggiate nel Nuovo Testamento è l’ospitalità (Rm 12:13; 1 Tm 3:2; Tt 1:8; 1 Pt 4:9). Ciò dovrebbe farci sorgere il sospetto di un problema sottinteso, giacché questo è uno degli ordini più apertamente trascurati nella chiesa moderna. L’ospitalità viene praticata in un ambiente familiare. Però, se le nostre famiglie si stanno polverizzando in individui frammentati, ognuno con la sua vita indipendente da svolgere, il contesto potenziale per essere ospitali è assai esiguo.

È istruttivo che uno dei requisiti visibili che Dio ha stabilito per valutare le qualità dei conduttori potenziali della chiesa è che essi siano ospitali (1 Tm 3:2; Tt 1:8). Quando ero giovane, svolsi il servizio di pastore dei giovani e di pastore associato in due diverse chiese istituzionali (ognuna per più di un anno), e durante quel periodo non misi mai piede in casa del pastore principale riconosciuto. In uno dei due casi, non imparai nemmeno dove viveva il pastore.

Non sto assolutamente biasimando questi sinceri uomini di Dio, che avrebbero dovuto essere “esempi del gregge” (1 Pt 5:3), per questa noncuranza scioccante della Scrittura. Ero tutt’altro che meglio di loro. Immaginavo che il territorio neutrale dell’edificio ecclesiastico fosse il posto più appropriato per la comunione, e che sebbene l’ospitalità fosse bella, non fosse essenziale. Perciò c’erano dei santi a cui io ministravo che potevano accusarmi facilmente dello stesso errore. Semplicemente non lo capivamo!

LA FAMIGLIA DI UN ANZIANO

I requisiti minimi ed espliciti per la conduzione nel corpo di Cristo comprendono altre questioni familiari. Un anziano/vescovo (si può dimostrare che questi termini equivalgano a quello di pastore nella chiesa neotestamentaria — si vedano poimáin?, presbýteros ed epískopos in At 2:17, 28; Tt 1:5, 7; 1 Pt 5:1-2) doveva essere “marito di una sola moglie” (1 Tm 3:2; Tt 1:6). Esiste qualche controversia, oggi, riguardo all’applicazione di questo. Alcuni lo applicano semplicemente alla poligamia, altri sospettano che ciò precluda gli uomini divorziati e riposati dall’essere riconosciuti pubblicamente come esempi, e altri ancora lo interpretano dicendo che un anziano dev’essere un “tipo di uomo di un’unica donna”.

Io credo che il requisito di essere “marito di una sola moglie” non intenda solo che sia squalificato un uomo con più di una moglie, ma che anche un uomo con meno di una moglie non sia qualificato a essere riconosciuto come modello per la chiesa. Sebbene gli uomini celibi abbiano certamente il beneficio di minori distrazioni e responsabilità, e perciò più libertà, proprio questa mancanza di responsabilità è anche un handicap quando si tratta di guidare nella chiesa. È più probabile che un uomo celibe sia (o almeno sia percepito come) “un neoconvertito”, però Paolo disse a Timoteo (1 Tm 3:6, ND) di scegliere come anziani chi non lo fosse. Inoltre, mise in chiaro che era importante la reputazione, così come la realtà, della maturità di un uomo (1 Tm 3:7: “Bisogna inoltre che abbia una buona testimonianza da quelli di fuori”).

Qualche tempo dopo aver sposato mia moglie, Connie, cominciai a rendermi conto di quanto fossi impreparato al matrimonio. Non ero semplicemente abbastanza maturo per il matrimonio. Eppure, ponderando la questione, giunsi alla conclusione che probabilmente non sarei mai stato abbastanza maturo per il matrimonio, restando celibe. Ma mi sembra che dopo pochi mesi dal matrimonio, ero stato “stirato” in modi meravigliosi che mi avevano costretto a maturare. Dubito che sarei mai cresciuto in quegli àmbiti da celibe. Il matrimonio mi ha trasformato in qualcosa che non sarei potuto diventare diversamente. È vero in tutti i casi, tranne qualcuno, che “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2:18). Probabilmente esistono delle eccezioni, ma un uomo che non è sposato (o almeno che non lo è mai stato) non è probabilmente nella posizione di essere un modello di comportamento completo ed equilibrato per il corpo di Cristo come chi abbia mostrato la capacità di governare “bene la propria famiglia”.

In effetti, io ho il sospetto che un uomo che non ha sperimentato la paternità sia similmente svantaggiato. Paolo disse a Tito (1:6) di riconoscere come anziani solo quegli uomini secondo queste caratteristiche: “marito di una sola moglie, che abbia figli fedeli”. Così come non ero pronto al matrimonio se non dopo sposato, non ero pronto alla paternità fino a dopo che Connie e io fummo benedetti con il nostro primo figlio. Essere padre mi sollecitò a maturare in certi modi in cui, probabilmente, non sarei mai maturato senza avere figli. Quando il Signore continuò a benedirci con più figli, e mentre ognuno di loro veniva educato attraverso i diversi stadi dell’infanzia e della giovinezza, io venivo ulteriormente preparato a essere anziano.

Io e gli altri padri che, nella nostra congregazione, istruiscono come me i propri figli in casa, abbiamo teorizzato che il motivo per cui Dio ci ha indotti a discepolare i nostri figli a casa anziché mandarli a scuola non è esclusivamente (e forse nemmeno primariamente) per il loro beneficio. Dio ci ha chiamati a insegnare ai nostri stessi figli almeno in parte a motivo della maturità che questo comporta per noi come padri. Qualunque insegnante riconoscerà di imparare, nel processo d’insegnamento, quanto o più degli alunni. In effetti, ho il sospetto che uno dei motivi principali per cui Dio ha fatto sorgere il movimento della scuola fatta in casa in questa generazione è di preparare anziani davvero qualificati che abbiano imparato come discepolare gli altri come risultato del discepolare i propri figli e le proprie figlie.

Purtroppo, come già accennato prima, i figli di quanti sono impegnati nel ministero nella chiesa contemporanea godono spesso di pessima reputazione. Io sono benedetto nell’essere io stesso un “PK” (non un “Promise Keeper” , ma un “Preacher’s Kid” [predicatore dei bambini]). Ma da bambino appresi che l’acronimo “PK” è spesso un termine dispregiativo nella chiesa contemporanea. Sebbene questo biasimo non sia sempre meritato (molti amano trovare mancanze nei conduttori per scusare le proprie), troppo spesso è vero che i figli di chi è nel ministero pubblico non sono degli esempi per il resto del corpo di Cristo.

Immagino che abbiamo visto tutti uomini che sembrano avere una vera chiamata di Dio nella loro vita per il ministero pubblico, e che ciò nonostante sono così concentrati su quel ministero da trascurare la propria famiglia. Come requisito per la conduzione della chiesa locale, Paolo incluse che i figli di un anziano dovevano essere beneducati. Egli definisce “[governare] bene la propria famiglia” (1 Tm 3:4) come “[tenere] i figli sottomessi e pienamente rispettosi”. Poi fa il seguente ragionamento (1 Tm 3:5): “se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?”.

Nelle sue istruzioni a Tito (1:6), egli è più esplicito nello specificare quale frutto ci si aspetti dalla paternità di un anziano. Egli deve avere “figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza né insubordinati”. Non solo i figli degli anziani devono essere sottomessi, ma la loro fedeltà dev’essere così evidente da non poter essere nemmeno accusati di eccessi o disubbidienza.

Ovviamente, i figli degli anziani saranno egoisti e inclini al peccato, proprio come lo è tutta l’umanità. Eppure, solo quegli uomini che hanno dato prova della loro capacità di aver insegnato “al ragazzo la condotta che deve tenere” (Prv 22:6) dovrebbero essere riconosciuti pubblicamente come modelli per la chiesa. Il termine tradotto “fedeli” rispetto ai propri figli (gr. pistós) altrove è tradotto “credente”. (Ad esempio, Gesù impiegò questo termine in contrasto al dubbio di Tommaso in Giovanni 20:27. Cfr. anche At 10:45; 16:1; 2 Cor 6:15; 1 Tm 4:3, 10, 12; 5:16; 6:2). Non è certamente un abuso affermare che solo gli uomini che hanno figli credenti beneducati dovrebbero essere presi in considerazione per il ministero di anziani.

Alcuni potrebbero indicare gli esempi di Gesù e Paolo, che erano uomini celibi e senza figli. Tali eccezioni dovrebbero certamente motivarci a essere cauti nell’applicare troppo rigidamente la norma biblica. Eppure, dovremmo anche evitare di usare le eccezioni per invalidare le norme chiaramente insegnate nella Scrittura. Benché vi siano buone ragioni per concludere che Paolo fosse celibe, alcuni studiosi credono che egli fosse stato sposato. Sebbene fosse un eunuco, il suo stesso scritto ispirato dallo Spirito specifica che gli anziani della chiesa locale (non necessariamente apostoli itineranti) siano “marit[i] di una sola moglie, che abbia[no] figli fedeli”.

Alcuni potrebbero persistere nella propria idea facendo notare che gli altri apostoli avevano lasciato, apparentemente, le proprie famiglie per seguire Gesù. Però io ho il sospetto che noi leggiamo questi racconti attraverso un filtro moderno distorto, che distorce la nostra percezione secondo il nostro paradigma individualistico. Anche l’unico racconto specifico (Mc 1:20) di come Giacomo e Giovanni “[lasciarono] Zebedeo loro padre nella barca con gli operai” non parla, verosimilmente, del fatto che essi disonorarono loro padre, se teniamo conto del successivo rimprovero che Gesù (Mc 7:1-13) estese ai farisei adulti di “annulla[re] così la parola di Dio con la tradizione”, quando essi razionalizzavano il fatto di non onorare il padre e la madre. Sebbene le argomentazioni desunte dal silenzio siano sospette, non è improbabile che Giacomo e Giovanni avessero la benedizione di Zebedeo. Questo è particolarmente verosimile, visto che anche loro madre sembra essere stata una delle donne che seguivano Gesù (Mt 20:20; 27:56).

Ma chi erano queste “molte donne che […] avevano seguito Gesù dalla Galilea” (Mt 27:55-56; Mc 15:40-41; Lc 8:1-3; 23:49, 55; 24:10)? Alcune di loro vengono nominate (“Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”), ma a quanto sembra ve n’erano molte altre. È piuttosto sorprendente che non si accenni minimamente al fatto che i farisei accusassero Gesù e gli apostoli di indecenza, a motivo delle molte donne che li accompagnavano. Una spiegazione possibile è che queste molte donne includessero le mogli degli apostoli.

Ancora una volta, alcuni contesteranno che questa è un’argomentazione desunta dal silenzio. Eppure, anche la tesi secondo cui gli apostoli lasciarono le mogli e i figli per seguire Gesù è basata soltanto su un’illazione. Alcuni sostengono che quando Gesù elogiò chi “abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor [Suo] e per amor del Vangelo” (Mc 10:29), stesse rendendo tutto questo normativo. Eppure, se fosse così, ciò sarebbe in contraddizione con il resto dell’insegnamento Suo e degli apostoli. Chiaramente, moglie e figli sono fra coloro che ci è comandato di odiare (Lc 14:26), in confronto alla nostra devozione a Gesù. Eppure, altrove ai mariti è comandato di amare le proprie mogli (Ef 5:25; Col 3:19).

GLI APOSTOLI ERANO SPOSATI?

Sappiamo che Pietro era sposato, perché ciascuno dei Vangeli sinottici riferisce che Gesù guarì “la suocera” (Mt 8:14; Mc 1:30; Lc 4:38). Non è sorprendente che, tolto questo singolo caso, la moglie di Pietro non sia mai menzionata nei Vangeli? Però il silenzio dei Vangeli riguardo a questa donna non può essere preso per sottintendere una qualche mancanza di attività o di devozione da parte sua. Sappiamo che, successivamente, la moglie di Pietro viaggiò con lui nel ministero (1 Cor 9:15).

In effetti, scopriamo che anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore viaggiavano con le mogli. Quanti degli altri apostoli avevano moglie? Qui Paolo potrebbe star usando un’iperbole, ma l’affermazione suona come se stesse insinuando che lui e, forse, Barnaba (1 Cor 9:16) fossero gli unici apostoli a non seguire questa pratica.

Non sappiamo quando si fossero sposati questi altri apostoli. È certamente possibile che lo avessero fatto successivamente ai loro tre anni e mezzo con Gesù, ma non è necessariamente così, solo perché le loro mogli non sono menzionate nel racconto. Noi giungeremmo a questa conclusione solo se leggessimo il racconto filtrato dai nostri paradigmi moderni. Oggi sembrerebbe assai inappropriato trascurare di menzionare le mogli degli apostoli. Però, se non fosse per il singolo commento incidentale di Paolo, non avremmo alcuna menzione diretta delle mogli degli apostoli. Se non fosse per quell’affermazione, molti dedurrebbero dal silenzio della Scrittura che essi non fossero sposati. Eppure, questo sembra essere un paradigma relativamente recente.

Che ne è dei figli? È probabile che i matrimoni degli apostoli fossero benedetti dal frutto del grembo. Benché i loro figli non siano menzionati, così come le mogli, è solo attraverso i contemporanei sistemi di riferimento che noi useremmo questo silenzio per concluderne che tali figli non esistessero, o che non viaggiassero con i genitori. Nella cultura ebraica, si dava per scontato che gli uomini avessero moglie e figli, con poche eccezioni.

Le prove della moglie e dei figli di un altro apostolo provengono da una fonte sorprendente. Prima di tradire Gesù, Giuda era “nel numero dei dodici” apostoli (Lc 6:13-16; 22:3). Ed era sposato con figli. Dopo la sua morte, Pietro disse agli altri discepoli (At 1:16) che c’era una “Scrittura pronunziata dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda”. Poi proseguì citando parte di Salmi 109:8, che recita: “Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo posto”. Notate che questo Salmo continua parlando della stessa persona (Sal 109:9-10): “I suoi figli diventino orfani e sua moglie vedova. I suoi figli siano vagabondi e mendicanti e cerchino il pane lontano dalle loro case in rovina”. Il passo continua a parlare dei suoi figli orfani e della sua discendenza. E Pietro affermò che questo passo era una profezia biblica riguardante Giuda. Pertanto, si può sostenere che Giuda avesse moglie e figli.

Sebbene tali indicazioni non costituiscano un tema principale, io sto suggerendo che noi moderni abbiamo dato per scontato, dal silenzio delle Scritture riguardo alle famiglie degli apostoli, che essi seguirono Gesù solo individualmente. Sarebbe più storicamente valido supporre — dato il contesto culturale — che quegli uomini fossero sposati e avessero figli. Sono pertanto convinto che dovremmo usare il silenzio relativo riguardo alle famiglie degli apostoli come una prova della loro esistenza e che tutte le loro famiglie stessero seguendo Gesù.

I MINISTERI FAMILIARI NEL NUOVO TESTAMENTO

Non solo la maggior parte degli apostoli aveva famiglia, ma il Nuovo Testamento allude, più specificamente, a parecchi ministeri familiari. Aquila e Priscilla erano una coppia dedita all’opera del Signore. Il silenzio della Scrittura, riguardo al fatto che essi avessero o meno anche dei figli come parte del loro ministero familiare, non dovrebbe essere preso come prova contraria della probabilità che essi ne avessero. Storicamente, sarebbe stato insolito per una coppia non avere figli, e non sarebbe stato insolito che questi non fossero nominati o menzionati.

Il riferimento a Paolo che trovò Aquila a Corinto (At 18:2) potrebbe indicare che egli conoscesse già questa famiglia, e che questa lo stesse cercando. A ogni modo, essi lo accolsero nella loro famiglia, e a quanto sembra consentendogli anche di far parte della loro azienda familiare di costruzione di tende (At 18:3). Paolo restò a Corinto un anno e mezzo. Quando partì per Efeso, Priscilla e Aquila lo accompagnarono. Se avessero avuto dei figli, come credo sia probabile, essi avrebbero indubbiamente fatto parte della famiglia che si trasferì. Paolo stette a Efeso solo per breve tempo, intendendo ritornarvi successivamente. Però la famiglia di Aquila rimase a Efeso (At 18:18-19), forse in preparazione al rientro anticipato di Paolo in quella città (v. 21).

Durante l’assenza di Paolo, un uomo di nome Apollo cominciò a predicare il Vangelo nella sinagoga efesina, ma la sua conoscenza era scarsa. Pertanto Aquila e Priscilla “lo presero con loro” (At 18:26; probabilmente in casa loro) “e gli esposero con più esattezza la via di Dio”. Successivamente, Paolo affermò (1 Tm 2:12) che egli “non [permetteva] alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma [che stesse] in silenzio”. Come si può riconciliare questo con la descrizione secondo cui Priscilla, così come Aquila, “esposero [ad Apollo] con più esattezza la via di Dio”?

Una soluzione a quest’apparente contraddizione potrebbe trovarsi nella distinzione fra “spiegare” e “insegnare”. Un’altra potrebbe essere che l’ammonizione di Paolo al silenzio delle donne nelle riunioni ecclesiali (1 Cor 14:34-35) sembra essere limitata al momento in cui “tutta la chiesa si riunisce” (14:23). È alquanto probabile (o almeno possibile) che l’ammonizione di Paolo contro le donne che insegnano agli uomini sia nello stesso contesto. Pertanto, sarebbe abbastanza accettabile che le donne esercitino i doni spirituali in ambienti più privati, o in qualunque ambiente diverso dalla riunione vera e propria dell’intera chiesa riunita collettivamente. Perciò, come parte significativa (menzionata in modo preponderante) della famiglia ministeriale di Aquila, Priscilla avrà trovato un’espressione appropriata del suo dono d’insegnamento nella conversazione privata, anche nell’aiutare a correggere umilmente la comprensione insufficiente del Vangelo da parte di Apollo.

Vediamo che quando Apollo partì successivamente per Corinto, c’era un insieme di fratelli a Efeso (At 18:27) che collettivamente “lo incoraggiarono, e scrissero ai discepoli [a Corinto] di accoglierlo”. Sembrerebbe che il ministero familiare di Aquila stesse portando frutto. Sappiamo per certo che quando Paolo scrisse l’epistola di 1 Corinzi (presumibilmente da Efeso), mandò i saluti da Aquila e Priscilla (1 Cor 16:19), “con la chiesa che [era] in casa loro”. Il loro ministero familiare stava chiaramente portando sempre più frutto.

Possiamo solo fare congetture su come procedettero le cose per il ministero familiare di Aquila col passare degli anni, ma qualche tempo dopo, quando Paolo scrisse la sua epistola ai santi di Roma, disse specificamente: “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù” (16:3). A quanto sembra, adesso questa famiglia era a Roma, e sembra anche che il Signore si stesse servendo del loro ministero. Dopo averli ulteriormente elogiati, Paolo dice: “Salutate anche la chiesa che si riunisce in casa loro” (16:5). Come a Corinto e a Efeso, Aquila e Priscilla e la loro famiglia stavano chiaramente ministrando insieme in modo efficace a Roma, per il regno di Dio.

Un altro ministero familiare interessante nella Scrittura è quello di Filippo l’evangelista. Egli era uno dei “sette uomini, dei quali si [aveva] buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza” (At 6:3) che gli apostoli scelsero per dirigere la distribuzione di cibo alle vedove di Gerusalemme. Successivamente, egli fu usato potentemente nel portare il Vangelo alla Samaria, e poi condurre l’eunuco etiope al Signore. Il silenzio della Scrittura riguardo al fatto che Filippo avesse una moglie non dev’essere chiaramente inteso come se, implicitamente, egli fosse celibe. Non era insolito che la moglie di un uomo restasse nell’ombra. In questo caso, deduciamo che Filippo avesse moglie perché sono menzionate le sue “quattro figlie non sposate, le quali profetizzavano” (At 21:9).

Questo ministero familiare provvide ospitalità a Paolo e ai suoi collaboratori (incluso Luca). Alcuni suppongono che poiché le figlie di Filippo profetizzavano, l’impiego dei loro doni fornisca argomenti contro la ripetuta direttiva di Paolo (1 Cor 14:34-35; egli affermò specificamente questo fra i “comandamenti del Signore” [v. 37]) secondo cui le sorelle “tacciano nelle assemblee”. Tuttavia, non c’è niente nel testo che ci induca a pensare che queste giovani profetizzassero nelle riunioni ecclesiali. Similmente, quando saltò fuori un altro profeta, Agabo, e profetizzò che Paolo sarebbe stato legato a Gerusalemme (At 21:11), non c’è alcun motivo per pensare che questa profezia fosse stata data in una riunione ecclesiale, quanto piuttosto nel contesto dell’ospitalità accordata dalla famiglia di Filippo agli ospiti. Quella di Filippo era un ministero familiare in cui la preghiera, l’esortazione e anche le profezie erano probabilmente comuni, ossia degli eventi quotidiani sia da parte degli uomini che delle donne.

Eppure, un altro ministero familiare menzionato nel Nuovo Testamento è quello di Onesiforo. Paolo scrisse: “Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha molte volte confortato e non si è vergognato della mia catena; anzi, quando è venuto a Roma, mi ha cercato con premura e mi ha trovato” (2 Tm 1:16-17). Questo fratello, e forse la sua famiglia, andò a Roma almeno e in parte con lo scopo di visitare Paolo e di provvedere ai suoi bisogni. Che la famiglia di Onesiforo fosse o meno con lui, Paolo la benedì per intero. Perché?

Paolo continuò dicendo: “Tu sai pure molto bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso” (2 Tm 1:18). Qui c’era un fratello che, sia che viaggiasse sia che fosse a casa, aveva la reputazione di provvedere ai bisogni dei santi. Dato il riferimento alla sua famiglia, non è difficile immaginare che i componenti familiari ministrassero insieme con il capofamiglia in modi assai pratici. Questa fu un altro ministero familiare che Dio usò nel suo insieme. Prima di concludere questa lettera a Timoteo, Paolo menziona ancora una volta la famiglia di Onesiforo, scrivendo: “Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesiforo” (2 Tm 4:19). È chiaro che quest’intera famiglia avesse un posto speciale nel cuore di Paolo.

Un ultimo ministero familiare che vorrei considerare è quello di Stefana. Paolo battezzò questa famiglia a Corinto (1 Cor 1:16). Essi furono i primi convertiti di Paolo (le primizie) nella provincia romana dell’Acaia, e li elogiò (1 Cor 16:15) come una famiglia “dedicata al servizio dei fratelli”. Poi continuò comandando qualcosa che non ho trovato da nessun’altra parte del Nuovo Testamento diede direttive ai santi corinzi (1 Cor 16:16) di sottomettersi a tali persone. Disse alla chiesa di lì di sottomettersi all’intera famiglia di Stefana, e contrariamente a qualche altro caso in cui i traduttori italiani hanno impiegato il termine sottomettersi, nel contesto delle relazioni ecclesiali, in questo caso è usata la parola greca hypotáss?, un termine militare che si riferisce alla subordinazione e all’ubbidienza.

APPLICAZIONE

È chiaramente più efficace mostrare a qualcuno qualcosa, anziché parlarne semplicemente. Il modello biblico è che i conduttori nel corpo di Cristo siano esempi del gregge anziché suoi dominatori (1 Pt 5:3). Una delle aree principali in cui gli anziani devono essere esempi è nel modo in cui gestiscono le loro famiglie. Per essere un esempio del genere, coloro a cui si ministra devono essere in grado di vedere la famiglia del conduttore in azione.

Io sfido il corpo di Cristo a cercare dal Signore la rivelazione relativa al Suo cuore per le famiglie, e a riconoscere la schiavitù che il nostro individualismo culturale c’impone. Esorto gli operai cristiani a fare delle famiglie il loro primo ministero — e dei propri figli i loro primi discepoli. Poi, quando ministriamo agli altri, dovremmo farlo, per quanto possibile, alla presenza della nostra famiglia.

Per molti anni, il Signore mi ha portato a evitare di viaggiare da solo. Di tanto in tanto, viaggia e ministra con me un altro fratello. Però io porto di solito mia moglie o uno dei miei figli. Quando un’opportunità ministeriale si può raggiungere in auto, spesso mi porto dietro tutta la famiglia. (Mentre sto scrivendo questo, sono con tutta la famiglia — moglie e sei figli — in un viaggio ministeriale di tre mesi in India). Ho constatato l’indefinibile, ma certo, impatto di avere almeno parte della mia famiglia con me in circostanze ministeriali. Quando le persone vedono il frutto del mio stile di vita messo in pratica davanti a loro, ciò dà più credibilità alle mie parole.

Il mio profondo desiderio è che la mia famiglia sia, come quella di Stefana, un piacere per il Signore Gesù in quanto ministero familiare esemplare e potente.

 

(trad. Antonio Morlino)

14/08/’07

NOTE